Alla pari ditante località del mondo, anche la nostra città vantava specialità culinarie;piatti tipici che, oggi gli anziani non possono più gustare e i giovani nemmenoconoscere; né si saprebbero preparare e cucinare, data la mancanza, sia dimaterie prime, soprattutto genuino, dovuta all’intromissione, nellagastronomia, della chimica che ha avvelenato i nostri stomachi e distrutte lenostre visceri, come di massaie abili e competenti.
Infatti dovetrovare una donna che per “tirare il ragù” passasse l’intera mattinata vicinoal fornello della cucina, per aggiungere l’acqua nel tegame a poche gocce pervolta, per non interrompere il bollore della salsa?
Dellapasticceria che durante le varie ricorrenze festive dell’anno si preparava incasa, un posto preminente spettava al grano cotto, con cui si onorava il giornodi “tutti i santi”.
La seradella vigilia ogni massaia aveva l’abitudine di porre a bagno, a seconda deibisogni della propria famiglia, una quantità di bianchetta o di maiorca, queltale grano tenero, privilegio della nostra produzione agricola, con il quale siconfezionava il saporitissimo e bianchissimo pane, che le nostre donne, per ilsuo candore parificavano allo smalto dei denti di cavallo, che all’uscita deiforni profumava le strade cittadine e gareggiava con le briosches deipasticcieri.
Dopo qualcheora di bagnatura lo poneva a bollire; raggiunta la cottura lo passava araffreddarsi in larghi piatti, a preferenza quelli nei quali, durante l’estatesi asciugava la conserva di pomodoro, per poi condirlo con zollette dizucchero, pezzettini di cedro, cioccolata in polvere e tritata, cannella inpolvere, confettini finissimi assortiti e tutto annaffiava abbondantemente divino cotto, attendendo, per gustarlo, l’ora del dessert della mattina dopo. Perun paio di giorni la leccornia formava la delizia dei grandi e dei piccoli;serbarlo ancora per altro tempo, non era possibile; il vincotto avrebbeindurito i chicchi del cereale.
A CURA DI
ETTORE BRAGLIA